selfie

Quanto ci piace piacere!

Un selfie vale più di mille parole

 

È appagante quel click di approvazione che ci arriva appena condividiamo sui social un’immagine che ci rappresenta. Quando riceviamo un commento, una condivisione o un like, tutto diventa elettrizzante.

Ma siamo veramente noi? Quell’espressione ammiccante, per certi versi ambigua, ci rappresenta?

Siamo reduci da un periodo storico mediatico, pochi anni ma intensi, in cui l’apparire è fondamentale, sacro. Il come è secondario.

Quando vogliamo farci l’idea di una persona, spulciando da brave pre-anziane di paese, trovandoci davanti a quel volto deformato e compiacente, restiamo intelligentemente neutre o cediamo al bigotto pensiero del giudizio? Pensiamo all’interessante sbarazzina citazione fotografica in atto o trasliamo una serie di giudizi sulla persona senza neanche averne mai sentito la voce?

Trovo orribile giudicare senza conoscere, ma devo ammettere che faccio molta fatica a prendere sul serio un profilo social denso di opere di Frida Khalo o di Margherita Hack, affiancate da un richiamo soft erotico, anche se colmo di simpatia o, come è oramai prassi giustificare, di auto-ironia.

Affrontando la cosa con fare scientifico è ormai confermato che ogni reazione su un contributo nei social crea uno schizzo di endorfina. C’è un corto circuito.

Bruce Hood ha rilevato, tra i suoi studi, che ogni like su Facebook rilascia endorfina, che crea una sensazione di soddisfazione:

questi social hanno un gran potere sul nostro desiderio naturale di affermazione da un gruppo più grande.

Questo desiderio di affermazione, però, spesso non coincide con la qualità del contributo in rete.

Facendola breve: ti fai dei selfie orribili, in cui non trasmetti minimamente la sensibilità che vuoi esternare condividendo un’opera di Frida o un pensiero di Margherita.

Nel metterti in posa, richiamando un’iconografia pornografica familiare, senza avere le basi materico estetiche di chi vive di quelle pose, ti offendi. Non ti rendi conto di quello che fai? Ti offendi doppiamente.

Ci vuole cura nel mostrarsi, ovunque!

Mi piace tirare in ballo Frida. Lei bloccata al letto, una vita tecnicamente orribile, non avrebbe avuto tanti like se non pubblicando le sue opere. Immaginati poi tutti i commenti gentili sulle sue sopracciglia. Il suo contributo alla società è nelle sue opere. La sua vita non è un esempio, ma la dimostrazione che si può vivere, se si vuole veramente farlo. Ha esternato tutta la sua complessità nell’arte.

Condividere questa densità mostrandosi come la copia sbiadita di un marketing visivo al femminile, figlio di Colpo Grosso, non significa assimilarne i valori, ma anzi si amplificano le differenze. In modo incredibile.

Lo vuoi fare come omaggio? Ci sta!

Resta tuttavia una tua sensazione personale, un intento che rimane al caldo nel tuo cuoricino, senza amplificare la percezione della tua personalità.

Quando vidi Margherita Hack in una conferenza davanti a Palazzo Vecchio, le feci una foto, la trovai bellissima. Quella bellezza fatta di intelligenza scientifica ed emotiva, di qualcuno al di sopra, ma allo stesso tempo presente e in contatto con tutti e tutto.

Non è di tutte quell’aura, lo ammetto.

Allontanandomi delicatamente da questi due esempi, ti chiedo, cosa ti spinge a fotografarti come se dovessi allegare delle foto ad un curriculum destinato a Tinto Brass? A lui piacciono i culi!

In un’indagine tra i vari HR, quelli che verificano le migliaia di curriculum che invii, è emerso che il motivo principale per cui una candidata o un candidato viene scartato è il tipo di immagine che condivide, quella con cui si rappresenta. Interessante, vero?!

A questo punto è necessario riflettere: vale la pena piacersi senza porsi delle domande sulle conseguenze di quello che condividiamo?

Condividi il nostro articolo Pink!

Articoli simili

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *